
Ci penso e ci ripenso e non mi va via. Duecento morti. Duecento vivi che si preparavano a sganciare le cinture, a sistemare il libro nel bagaglio a mano, a pensare che magari erano in ritardo, alle cose da fare. Uomini, donne, bambini. Duecento nomi. Duecento storie che bruciano e salgono nel fumo nero di San Paolo. Gli incidenti aerei fanno notizia per un giorno solo, poi si passa ad altro. I notiziari ci dicono che Padre Bossi è libero e che un fisioterapista narcotizzava, ciulava e fotografava i suoi pazienti ma nulla più del rogo del volo 3054 della Tam. I morti degli aerei hanno assunto negli anni una sorta di nuova valenza drammatica presso i media, un dolore veloce, un fast-pain passeggero e sbrigativo come la loro morte. Citato per dovere di cronaca, non ancora ignorato come i morti africani per fame. Nessun assassino, nessun piano, nessun mostro, nessun terrorista, nessun italiano nella lista, niente sangue da vedere. A che serve soffermarsi, a chi serve. Duecento morti in un colpo solo, duecento-morti-in-un-colpo-solo. Non si dovrebbe parlar d'altro per giorni.